Quel sabato avevo deciso di andare a Como sul lungolago Trento per vedere l’arrivo del Giro di Lombardia. Sarebbe stata la prima volta. Le gare ciclistiche le avevo sempre viste in televisione o come a bordo strada, uno sguardo fuggevole di colori mischiati che ti scorrono davanti così rapidamente da non riuscire a vedere un numero, riconoscere un volto.

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Sentivo solo gli altri appassionati che urlavano nomi, incitavano i campioni, indicavano le maglie. Io non ne riconoscevo uno. Cercavo di identificare il campione del Mondo attraverso la maglia, quella si, ma le strade su cui aspettavo la carovana erano pianeggianti oppure piccole salite; insomma nulla d’impegnativo per quegli atleti che sciamavano velocemente in mezzo al ronzio dello scorrimento delle catene sulle corone del blocco.

Mai riconosciuto nessuno insomma. Fu quello il motivo per cui decisi di andare a vedere l’arrivo della classica d’Autunno.

Così pensavo mentre il Pullman viaggiava verso Como. “Arriverò con un paio d’ore d’anticipo rispetto all’arrivo previsto, non farò fatica a trovare un buon posto”. Illuso. Sceso in piazza Matteotti la folla cominciava ad essere massa dopo poche decine di metri. Fu con fatica che raggiunsi piazza Cavour e la prospettiva era chiusa a sinistra, a destra ed anche sopra. Vedevo solo lo striscione del “Traguardo”. “É lì che che devo arrivare”. Pensai.

Muoversi nella folla è un’esercizio degno di una seduta di Yoga, con la differenza che in questo caso il respiro lo devi trattenere. Fu così che tra una leggera spinta con la spalla, l’occupazione di un pertugio, l’aggiramento di un energumeno, lo scivolamento tra due fidanzati, che riuscii a trovarmi di fianco alla struttura di Tubi Innocenti che fungeva da palco. Un’ottima posizione. Ero in prima fila, un metro prima della linea d’arrivo. Vedevo snodarsi di fronte a me il lungo lago incorniciato da due ali di folla. Le persone erano dappertutto, soprattutto alla mia sinistra e spingevano schiacciandomi contro uno dei tubi della struttura. Mi venne quasi istintivo superare i tiranti trasversali e infilarmi sotto il palco. Fantastico, ancora meglio. Potevo anche sedermi ed ero completamente solo. Non durò troppo. Un poliziotto mi vide e mi chiese di lasciare quel posto, però mi permise di stare sulla parte destra del palco, subito dopo la linea bianca. Passarono una decina di minuti e corridori arrivarono. Ci fu una volata vinta da qualcuno (neanche lì ero riuscito a riconoscere chi) e poi con qualche secondo di ritardo, fuori dal podio arrivò Giovanbattista “Tista” Baronchelli.

Superò il traguardo, frenò e scese dalla bici. Era piuttosto arrabbiato per come si erano svolti gli ultimi chilometri di gara, probabilmente sperava di poterla vincere quella classica. Baronchelli era uno dei nomi più attesi quel giorno, erano gli anni migliori della sua carriera e correva per la Bianchi, che è sempre stata considerata se non la Nazionale, almeno la Juventus del ciclismo; quasi tutti i migliori correvano per la Bianchi e una lunghissima teoria di campioni, da Coppi a Gimondi, avevano vestito quella maglia. Baronchelli venne preso d’assalto dai cronisti e in quegli attimi di confusione, prima di rispondere alle domande si girò, mi guardò e senza rivolgermi la parola mi diede la sua bicicletta.

Coppi a parte la Bianchi non mi era mai stata simpatica, forse per via dei colori che usava, l’azzurro e il bianco sulle maglie, e quel celeste che caratterizzava le biciclette, ma in quel momento cambiò tutto. Visto da vicino il colore celeste del telaio sembrava ottenuto dall’unione del riverbero del cielo sul col d’Izoard, dal sudore versato, sullo Stelvio, e dalla polvere della Roubaix. Ne rimasi abbagliato come lo fui al primo ascolto di “Little Wing”.

Il teppista che era in me fece balenare la prospettiva. “C’è una gran confusione, se ti giri e salti in sella in tre minuti sei irraggiungibile.”.

Mi girai e la piazza era li davanti a me, guardai una seconda volta la bici, mi girai nuovamente e un meccanico ufficiale della Bianchi, con tanto di tony ricamato con l’aquila d’oro incoronata ad ali spiegate, mi sorrise dicendo: “Grazie per aver tenuto la bici di Baronchelli; non sai quante ne ha perse in questo modo. Finita la gara ha il vizio di lasciarla in mano al primo che capita.” Gli diedi la bici e mi incamminai verso la stazione degli autobus. Pensando “Vabbé, ‘Ladri di biciclette’ lo ha già fatto De Sica”. Fu verso il bar Monti che vidi un altro dei corridori che avevano terminato il Lombardia. Lessi il numero sulla maglia, consultai la ‘Gazzetta’ e mi rivolsi a lui “Puis-je avoir son autographe monsier Criquielion?”

Non sapevo chi fosse Claude Criquielion, ma pochi anni dopo vinse il campionato del mondo.

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