Chissà cosa avrebbero pensato Oscar Wilde e il suo coscritto Arthur Rimbaud se avessero potuto assistere alla XXXII edizione dei Giochi Olimpici moderni che si sono disputati a Tokyo.
Lo scrittore irlandese sarebbe probabilmente rimasto colpito dalla globalizzazione di etnie e costumi – così lontani dalla bigotta ipocrisia dell’età Vittoriana – e ne avrebbe stigmatizzato l’essenza con uno dei suoi aforismi al vetriolo. Il poeta “maledetto” francese, al contrario, sarebbe probabilmente rimasto estasiato dal ribaltamento delle gerarchie classiche in molte discipline che tanto ha cercato nei suoi componimenti giovanili.
Tra le tante storie che hanno caratterizzato la prima Olimpiade P.P. (Post Pandemia) meritano senza dubbio una breve riflessione le imprese di due quartetti azzurri che hanno conquistato l’oro, rispettivamente, nell’inseguimento a squadre e nella staffetta 4×100 metri.
Tanti i punti in comune: quattro ragazzi giovani, uno spirito di squadra che viene prima del singolo, un risultato che è frutto di anni di lavoro e preparazione, una prestazione da record (italiano e, nel caso della pista, anche del mondo), il non essere favoriti per la medaglia più pregiata (soprattutto nell’atletica) alla vigilia e l’ultimo uomo: Filippo.
Già, l’ultimo uomo. Quello che può finalizzare o vanificare il lavoro della squadra.
Filippo Ganna, classe 1996, è un veterano della pista. Per chi, come me, lo conosce da più di dieci anni e lo ha visto crescere sportivamente gara dopo gara non è una sorpresa. L’Italia ha raggiunto la finale per il primo e secondo posto con prestazioni maiuscole nei turni preliminari. I danesi non sembrano più extraterrestri o, forse, sono i nostri azzurri ad aver preso la residenza su un altro pianeta, visto che nel primo turno hanno strappato proprio alla Danimarca il record del mondo.
Ce la giochiamo alla pari: prima avanti noi, poi avanti loro. Di poco, poi di tanto, infine forse troppo. Oltre otto decimi da recuperare in un chilometro è un’impresa titanica. Ma con Filippo che si porta in testa e inizia a tirare niente è impossibile. È dura anche per i compagni restare in scia della locomotiva umana di Vignone (ma è fondamentale stringere i denti perché è sul terzo uomo che si fermano i cronometri). Un secondo “mangiato” agli avversari in poco più di tre giri ed è medaglia d’oro per 166 millesimi di secondo con tanto di record del mondo della specialità battuto di nuovo. Mostruoso!
Filippo Tortu, di due anni più giovane di Ganna, è l’ultimo uomo della staffetta. Nell’atletica si corre insieme, ma si corre da soli. Un solo giro di pista, un pezzetto per ciascuno. Ma è “la somma che fa il totale”, come diceva Totò, e ciascuno deve dare il massimo nel proprio territorio di competenza. Filippo, però, è quello che deve tagliare il traguardo. È l’uomo che riceve il testimone e se lo tiene stretto fino alla fine. L’Italia corre bene, anzi benissimo, va oltre ogni più rosea aspettativa. Tortu inizia il rettilineo finale e la maglia azzurra è davanti, in zona medaglie. Una quarta frazione da seguire in apnea che vede Italia e Gran Bretagna appaiate sull’invisibile filo di lana. Anzi, no: l’azzurro si protende in avanti e il suo busto precede di un solo centesimo di secondo quello del britannico. E’ di nuovo oro, come per il quartetto della pista. Ancora in rimonta, ancora per infinitesime frazioni di secondo. Spaziale!
Dietro queste medaglie c’è anche una preparazione meticolosa, quasi maniacale, della strategia di gara. I meriti devono essere condivisi con chi sta dietro le quinte. Il Cittì del ciclismo è Marco Villa, il responsabile del settore velocità della FIDAL è Filippo (un nome a caso) Di Mulo: loro sono la mente, i ragazzi sono il braccio (nel caso specifico, le gambe).
L’importanza di chiamarsi Filippo, quindi, parafrasando il titolo di una delle commedie più famose di Wilde. E se Rimbaud sostiene che “nelle sere di giugno, a diciassette anni, non si può essere seri”, nelle sere di agosto, a Tokyo, con qualche anno in più si può vincere una medaglia d’oro sul serio!
Fabiano Ghilardi