‘E’ stata la mano di Dio’ non è un film su Napoli, tantomeno su Maradona. Non si tratta neanche di una rappresentazione/interpretazione del vero – la lezione del film qui è dichiarata apertamente – piuttosto è la moltiplicazione frammentaria e frammentata di una realtà vista attraverso gli occhi di un uomo che, nella coazione a ripetere e a tenere sotto stretto controllo tutti i suoi temi/schemi, ha finito per “disunirsi”. Questo non è il consueto, cinico, lyndoniano racconto dell’ascesa e caduta di un uomo a cui Sorrentino ci ha abituato, ma la rappresentazione plastica di una doppia crisi, di cui forse solo ora riesce a (cominciare a) parlare. Il linguaggio che sceglie non rinuncia al tono grottesco (una difesa e una necessaria chiave di interpretazione del reale che altrimenti lo sovrasterebbe), ma diventa finalmente più nitido ed essenziale. Sorrentino rifugge dall’affresco perché la realtà lo minaccia. Al più la sua sarebbe inesorabilmente una Napoli dipinta da Bosch. Tuttavia, il regista in questo film ci restituisce le ragioni intime di tutto questo e una volta tanto, sul fronte stilistico, rinuncia a parte degli eccessi dei suoi barocchismi manieristi, su quello narrativo, la discesa e il crollo qui sono finalmente, esplicitamente e compiutamente i suoi. Sorrentino ha smesso di fare il vomerese, senza poter rinunciare a esserlo. Ma non c’è alcuna pretesa di verosimiglianza nella sua messa in scena, qui siamo in uno spazio ulteriore rispetto al “fuori” della città, qui lo sguardo è rivolto all’interno. La città respira una o due volte in tutto il film, per il resto siamo nell’inferno napoletano – tutto interiore – di Sorrentino e quello che c’è dentro non è che la proiezione che il suo trauma ha costretto a deformare.

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(Simona Bassano)

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