La fine dell’evo berlusconiano rappresenta l’occasione per riflettere sulle grandi mutazioni identitarie degli italiani che, prima dell’avvento di Silvio Berlusconi, avevano già conosciuto quella che, giornalisticamente, fu battezzata l’epoca del “riflusso”.

Annunci

Finita la stagione della grandi sbronze ideologiche, alla fine degli anni Settanta la militanza cedette il passo al disimpegno e al “ritorno al privato” che rappresentarono la pietra tombale posta su un’epoca di feroci e violente contrapposizioni. Per le nuove generazioni, sedotte dal mito di Tony Manero e della “Febbre del sabato sera”, le grandi disquisizioni su Marcuse e sulla scuola di Francoforte divennero un futile vaniloquio di sparuti intellettuali passatisti.

La discoteca assurse al rango di rutilante tempio pagano in cui veniva celebrato un rito collettivo che rappresentava plasticamente la nuova temperie culturale: in questo senso, possiamo ben dire che l’ “edonismo di massa” è un fenomeno sociale che preesisteva al berlusconismo. Silvio Berlusconi ebbe il merito di capire, prima di altri, le traiettorie di un cambiamento che ai più schifiltosi appariva come una pericolosa regressione.

L’egemonia del berlusconismo affonda le radici in questa abilità del Cavaliere nel saper interpretare le pulsioni e il fermento di una società in cui il processo di secolarizzazione aveva determinato nei giovani la rimozione dei quell’antico pudore dei padri di dover vivere la propria agiatezza con misura e moderazione. Le tv di Berlusconi ritrassero questa Italia che si era pudicamente nascosta per decenni nel timore che la ricchezza dei pochi potesse suscitare l’invidia dei tanti: nelle province italiane resisteva ancora il tabù atavico che nel denaro albergasse sempre qualcosa di peccaminoso.

Per queste ragioni si veniva educati a distinguere la persona ricca da quella arricchita: il ricco era un “vero signore” sempre attento a non mortificare gli umili; gli arricchiti, di contro, erano spocchiosi parvenu che non esitavano ad ostentare i loro averi. Silvio Berlusconi intuì che le cose non stavano più così: seppe fiutare il vento del cambiamento soffiandovi sopra.

Ma nelle viscere della società italiana stava accadendo qualcosa di cui, probabilmente, neppure lui ebbe, nell’immediato, esatta contezza. In quegli anni, infatti, affiorarono i primi segnali di un fenomeno rimasto latente per molto tempo ma che oggi è deflagrato in modo dirompente: la lotta di classe aveva lasciato il posto al conflitto tra generazioni.

L’epoca del “riflusso”, infatti, rappresentò un periodo di netta cesura che, sul piano culturale, concorse a creare la prima faglia tra padri e figli. Eppure, malgrado questa frattura, resa più grave dall’avvento della tv commerciale prima e dei social dopo, entrambi sono curiosamente accomunati da quella singolare patologia sociale che si usa definire “presentismo”. Infatti, vivono parimenti appiattiti sul presente, con una peculiarità: i giovani ignorano il passato e gli adulti ignorano il futuro. I nostri ragazzi, infatti, sono immersi in un presente intrinsecamente effimero: i suoi contorni non sono definibili in quanto sono provvisori, labili. L’appiattimento sul presente produce indifferenza per tutto ciò che, nell’immaginario giovanile, rappresenta “passato”. Non solo. Oggi i ragazzi non vivono l’ansia di ciò che li attende nell’età adulta perché la precarietà rappresenta la dimensione naturale di tutti i loro rapporti: nel lavoro, nei sentimenti, nelle amicizie, tutto risulta “liquido” e transeunte. Questo li “condanna” ad occuparsi del solo presente senza “pre-occuparsi” troppo del futuro più lontano. Ma occorre riconoscere che sono stati gli adulti a modellare un mondo privo di certezze benché piaccia loro auto-assolversi deplorando stucchevolmente che i giovani amino “solo divertirsi”: banale solfa senza tempo, sempiterni luoghi comuni, vieti stereotipi di chi stenta a capire il mondo che cambia. In realtà, bisognerebbe ricordarsi dei salari da fame, della svalutazione del titolo di studio, delle carriere di tanti mediocri costruite sul servilismo, della fuga all’estero di tanti ragazzi sui quali la comunità ha investito denari. Chiediamoci: perché accade tutto questo? Accade perché anche gli adulti sono malati di “presentismo” e, infatti, non interessa loro investire sul futuro. Pertanto, se per i giovani conta il presente ed il futuro prossimo, per gli adulti conta il presente e il passato remoto: per ogni adulto, il futuro conta per quel poco che resta da vivere. Per loro, sembra valere una vecchia battuta di Woody Allen: “Perché dovrei preoccuparmi dei posteri? Cosa hanno fatto i posteri per me?”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *