Le nostre paure stanno mettendo in crisi non solo la nostra quotidianità ma un intero universo simbolico che si fonda sull’obbligo di una vita felice e sulla rimozione della morte. Ecco perché, “quando tutto sarà finito, nulla sarà più come prima”. Perché riscopriremo la normalità di essere uomini, quindi la precarietà della condizione umana davanti alla Natura che l’uomo si è illuso di piegare alle sue logiche di dominio. Come ebbe a scrivere Bauman in uno dei suoi ultimi libri, abbiamo creduto che nella modernità saremmo stati in grado di prendere il controllo della nostra esistenza e che le forze della natura si sarebbero arrese a noi, “noi che rappresentiamo le persone più al sicuro nella storia dell’umanità».
“Quando tutto sarà finito, nulla sarà più come prima”. Con questa espressione ormai abusata, che siamo soliti pronunciare in occasione di eventi clamorosi, si può sintetizzare perfettamente la grande metamorfosi che attende l’Occidente. Ritorna in mente il monito di Tommaso Marinetti: “la guerra, sola igiene del mondo!”. Le sere di lunedì 9 marzo e di mercoledì 11 marzo saranno ricordate dalle nuove generazioni come i nostri nonni ricordavano l’entrata in guerra del nostro paese. Non è la stessa cosa, per fortuna, ma lo stato d’animo collettivo non risulta molto dissimile. Blindare l’intero territorio nazionale, impedire la libera circolazione, incidere sulla libertà individuale, lottare quotidianamente contro un nemico invisibile che rischia di falcidiare la nostra popolazione più anziana, bene, tutto ciò sembra evocare il ricordo sinistro di qualcosa che non è la guerra ma che gli assomiglia terribilmente. Abbiamo tutti paura. La paura è uno stato d’animo che storicamente risulta estraneo alle democrazie liberali, innervate da un capitalismo che, da lungo tempo, ha scardinato i suoi argini naturali: non più, sic et simpliciter, sistema economico, ma “ethos”, stile di vita, modo di pensare e di ordinare i valori dell’esistenza. Il capitalismo ha forgiato la psicologia collettiva di interi popoli abituandoli al consumo, alla spensieratezza, al benessere. Il suo grande nemico è rappresentato dalla paura perché la paura decreta la fine dell’ “homo consumens”, variante tardo-capitalistica dell’homo ludens, al quale il capitalismo ha regalato l’illusione dell’immortalità e dell’eterna giovinezza. Le nostre paure, pertanto, stanno mettendo in crisi non solo la nostra quotidianità ma un intero universo simbolico che si fonda sull’obbligo di una vita felice e sulla rimozione della morte. Ecco perché, “quando tutto sarà finito, nulla sarà più come prima”. Perché riscopriremo la normalità di essere uomini, quindi la precarietà della condizione umana davanti alla Natura che l’uomo si è illuso di piegare alle sue logiche di dominio. Come ebbe a scrivere Bauman in uno dei suoi ultimi libri, abbiamo creduto che nella modernità saremmo stati in grado di prendere il controllo della nostra esistenza e che le forze della natura si sarebbero arrese a noi, “noi che rappresentiamo le persone più al sicuro nella storia dell’umanità». Lo sviluppo impetuoso della tecnologia e la fiducia fideistica nella scienza hanno provocato una sorta di “longitudine dei desideri” (Remo Bodei) di cui abbiamo teorizzato la possibile realizzabilità da parte di chiunque. L’uomo artefice del proprio destino, in grado di portare a compimento qualunque progetto personale, rappresenta l’archetipo di una modernità che, illudendosi di scendere in guerra contro i dogmi, a sua volta è miseramente assurta al rango di dogma fondativo di una società post-umana sempre più insofferente dei limiti imposti dalla Natura. Si ponga mente alla funzione dell’intelligenza artificiale o delle biotecnologie e la tacita accettazione, da parte del cittadino, della loro espansione nella ricerca. L’obiettivo delle biotecnologie è vincere la povertà del pianeta, individuare nuove terapie contro le malattie, dotare un corpo di un nuovo organo, far diventare madre una donna in menopausa o alla quale è stato donato il seme. Si tratta di alcuni esempi da cui si può arguire l’irrefrenabile ambizione dell’uomo di sottoporre al suo controllo alcuni processi vitali che appartengono alla Natura alla quale non rinunciamo a contrapporre la nostra volontà di potenza. Da questo approccio “scientista” alla vita, discende la perdita di senso della morte che non è più sinonimo di “salvezza”, come vorrebbe la tradizione religiosa, ma fonte di paura, di terrore. L’epidemia di queste settimane ha messo in crisi le nostre abitudini, la nostra quotidianità, ma servirà a restituirci la consapevolezza che l’invincibilità umana resta solo una grande illusione. Sarà questo il prezioso insegnamento che trarremo “quando tutto sarà finito”.