L’imminente ricorrenza del 25 Aprile si sta lentamente trasformando in una sorta di “esame di democrazia” della destra italiana che metterà a dura prova l’abilità di Giorgia Meloni nel dimostrare la discontinuità del suo partito con tutte le compagini del passato che non hanno fatto mistero della simpatia per il Ventennio.

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In verità, esiste una larga maggioranza del paese che ritiene ozioso e, perfino strumentale, qualunque riferimento alle ascendenze culturali della destra italiana. Di contro, esiste una parte non irrilevante della classe intellettuale che insiste sulla necessità che la destra italiana dichiari una volta per tutte, in modo inequivocabile, di non ritenere il Ventennio un semplice “incidente della storia”.

Si tratta di argomenti “scivolosi” su cui non è sempre facile confrontarsi perché, ancora oggi, su questi temi il dibattito pubblico stenta a misurarsi con la necessaria pacatezza. Malgrado siano trascorsi oltre settant’anni dall’avvento della Repubblica, risulta complicato analizzare con distacco i tre grandi totalitarismi del Novecento che andrebbero condannati in modo paritetico senza artificiose distinzioni fondate sulla contabilità delle efferatezze compiute.

Nel nostro paese, tuttavia, permane nel corpo sociale un sentimento anticomunista più profondo di quello antifascista e, per capire le ragioni di questa specificità tutta italiana, occorre fare una riflessione che finirà per non piacere sia ai detrattori del regime che ai suoi apologeti.

La prima ragione è da ricercare nell’anticlericalismo marxista che ha condotto il Partito comunista ad alienarsi il consenso delle masse cattoliche, peraltro già grate al regime per aver chiuso la “questione romana” con la firma dei patti Lateranensi e del Concordato (1929).

La seconda ragione si fonda sull’abolizione della proprietà privata dei “mezzi di produzione” propugnata dai comunisti che ha determinato l’inevitabile ostilità del ceto imprenditoriale.

Ma c’è un terzo fattore che ha contribuito in modo determinante a differenziare il livello di intransigenza: ci riferiamo a quella continuità tra Stato fascista e Stato repubblicano che ha perpetuato l’esistenza di un apparato burocratico composto da funzionari, magistrati, docenti universitari, insegnanti e impiegati che si erano formati in piena temperie fascista.

In proposito, occorre rammentare come, anche grazie al clima di pacificazione favorito dall’amnistia del 1946, molti esponenti di spicco del regime riuscirono a ricoprire ruoli apicali anche nello Stato repubblicano. Risulta paradigmatico il caso di Gaetano Azzariti il quale, malgrado avesse ricoperto il ruolo di Presidente della Razza durante il regime, nel 1957 fu eletto presidente della Corte costituzionale con l’avallo della sinistra.

Come si vede, il “continuum” tra apparato statale fascista e burocrazia repubblicana rappresenta un fattore, sovente sottovalutato, che ha inciso profondamente sulla formazione di una coscienza civile che per lungo tempo non è riuscita ad affrancarsi dalle incrostazioni del passato.

Malgrado l’avvento della Repubblica, per decenni l’universo simbolico degli italiani, il loro linguaggio, l’educazione familiare, il sistema scolastico, sono rimasti intrinsecamente permeati dei valori del regime.

Il grande merito della Democrazia Cristiana fu quello di mediare tra le due culture antagoniste che albergavano nella società italiana riuscendo ad imporre la visione di una società interclassista, saldamente ancorata ai valori della cultura occidentale e fondata sui principi della libertà e della solidarietà. L’impronta confessionale della DC consentì di scongiurare il pericolo di una società che, dopo avere vissuto il dramma della guerra, rischiava di subire le lacerazioni di una contrapposizione ideologica che non avrebbe certamente giovato alla tenuta delle istituzioni democratiche. Grazie ad una attenta politica sociale, la Democrazia Cristiana riuscì ad addomesticare quella parte di società italiana che diffidava della democrazia capitalistica, curiosamente invisa sia alla destra che alla sinistra.

A distanza di 75 anni dall’avvento della Repubblica sarebbe opportuno chiedersi se sia da ritenere matura una società che, per paura di rispondersi, ha paura di interrogarsi. Il problema sta tutto qui. Giorgia Meloni non perda questa occasione per dimostrare, con il coraggio che tutti le riconoscono, che il 25 Aprile rappresenta una festa di tutta la nazione che comprende anche la destra italiana per la quale il giuramento di fedeltà alla Costituzione repubblicana ha rappresentato un atto di sincera adesione ai valori della democrazia.

Solo in questo modo il paese potrà davvero voltare pagina.

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