Uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi tempi è, senza dubbio, il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cosiddetto Mes. Si tratta di un istituto entrato in vigore nel luglio 2012 al posto del vecchio Efsf (European Financial Stability Facility) che aveva la finalità di preservare la stabilità finanziaria in Europa e di fornire assistenza agli Stati dell’Ue con elevato debito.
Anche il Mes è un Fondo salva-stati il cui compito precipuo è di fornire assistenza finanziaria agli Stati membri dell’Ue a rischio default attraverso l’acquisto dei titoli del paese richiedente sia sul mercato primario (le aste) che sul mercato secondario (acquistando titoli già in circolazione), oppure attraverso l’emissione di prestiti, a tassi fissi o variabili, subordinati all’attuazione di un rigoroso programma di riforme.
Il Mes ha una capacità di prestito che ammonta a 500 miliardi.
Viene finanziato dai singoli Stati con quote che variano in base alla solidità delle singole economie (27% Germania, 20,3% Francia, 17,8 Italia). Ha un capitale sottoscritto pari a 704,8 miliardi, di cui 80,5 sono stati versati: l’Italia ha sottoscritto il capitale del Mes per 125,3 miliardi, versandone oltre 14.
Vediamo ora di individuare le incognite di uno strumento che, non va dimenticato, è stato concepito per attenuare i rischi di contagio nel caso di crisi di un paese dell’eurozona.
In positivo, possiamo affermare che il Mes consente agli Stati prossimi al default di avere un paracadute che consente di salvare la solvibilità del proprio debito. Tuttavia, come si è detto, il prestito viene concesso a fronte di un programma di riforme economiche di grande impatto sociale di cui l’esempio della Grecia nel 2015 risulta paradigmatico (riforma della pubblica amminstrazione, privatizzazioni, riforme fiscali, nuova legislazione del lavoro, tagli alla spesa sociale).
Desta perplessità, pertanto, il profilo che concerne il salvataggio finanziario di uno Stato che, in concreto, si traduce, in una serie di interventi che finiscono per conculcare i diritti sociali più elementari.
Questo indurrebbe a credere che il Mes sia uno strumento di salvaguardia più dei mercati che non della vita di una nazione, come affermano i detrattori più risoluti del Mes che militano, notoriamente, nell’area sovranista.
Tuttavia con tale approccio si tende a conferire al tema una forte connotazione ideologica che rischia di creare una grande confusione in una opinione pubblica già disorientata dagli eventi degli ultimi anni (covid, guerra, inflazione, clima).
In questo senso, brandire il Mes per alimentare la fobia anti-europeista non consente di capire le obiettive criticità di un istituto che è giusto mettere in discussione per la sua impostazione intrinseca e non per finalità, diciamo pure, oblique e strumentali.
Si ponga mente ai seguenti profili. Se ogni paese è tenuto a contribuire alla dotazione del Mes con importi di assoluto rilievo, ne discende che il fondo debba essere alimentato con un ulteriore indebitamento degli Stati. Pertanto, risulta legittimo chiedersi: ha senso finanziare un fondo salva-Stati attraverso l’aumento del debito? Non solo. Uno dei punti più controversi del Mes ha per oggetto la clausola secondo cui, per beneficiare degli aiuti, viene imposto ai paesi richiedenti l’obbligo di una ristrutturazione preventiva del debito: come dire, per accedere alle terapie, si impone all’ammalato di aggravarsi.
La sensazione è che l’Ue stenti a capire che, coltivare un approccio esclusivamente finanziario della costruzione comunitaria, serve solo a soffiare sul vento populista.
Occorre riconoscere che il Mes costituisce un strumento che piace ai rigoristi dell’austerity inclini storicamente a preoccuparsi più delle sorti dell’euro che non dei cittadini.
In proposito, risulta utile rammentare che, nel Giugno 2020, fu lo stesso commissario degli Affari economici, Almunia, a sostenere che l’aiuto alla Grecia aveva consentito, sì, di salvare l’euro ma paralizzando, in modo letale, la crescita dell’economia greca.
Questa miopia dell’establishment degli Stati dell’Unione rischia, in modo dissennato, di favorire la dissoluzione del sentimento europeista che rappresenta la linfa vitale dell’architettura europea. Continuare a coltivare una visione tecnocratica dell’Europa significa, pertanto, fare il gioco dei sovranisti perché finirà, fatalmente, per affossare quell’ideale europeista di cui anche nelle nuove generazioni si sta perdendo traccia.

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