Secondo l’ultimo rapporto Oxfam, nei due anni di emergenza sanitaria, l’1% più ricco del pianeta si è accaparrato il 63% dell’incremento complessivo della ricchezza globale lasciando il restante 37% di ricchezza incrementale al 99% più povero della popolazione mondiale.

Malgrado le dimensioni del fenomeno, all’interno delle società capitalistiche nessuno osa più stupirsi delle crescenti disuguaglianze sociali che rischiano di mettere a repentaglio la tenuta delle democrazie liberali. Il nostro paese non è da meno.

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Sono lontani i tempi in cui un grande imprenditore illuminato come Adriano Olivetti era solito affermare che, all’interno di un’azienda, il dirigente di grado più elevato dovesse avere un reddito superiore, al massimo, dieci volte il salario più basso: oggi, gli emolumenti di un manager italiano possono superare anche di 700 volte il salario di un operaio. Nel 1980 gli amministratori delegati percepivano uno stipendio superiore di 45 volte a quello di un dipendente. Nel 2020 la media degli emolumenti dei primi 10 top manager italiani era di 9,59 milioni di euro, pari a 649 volte lo stipendio annuo di un operaio. Tutto ciò nell’indifferenza generale.

L’assuefazione del cittadino ad accettare, fino ad ignorare, le gravi disparità che minano la stabilità del corpo sociale, rende agevole quel controllo sociale che ha condotto Shoshana Zuboff a parlare di “capitalismo della sorveglianza”. All’interno delle società democratiche, assistiamo ad una sorta di corto di circuito che finisce per rendere normali situazioni che non lo sono affatto. In questo modo il cittadino viene “educato” a non indignarsi davanti ad una serie stratificata di aberrazioni che collidono con lo spirito di una vera democrazia.

Si ponga mente al caso di un amministratore delegato di un istituto di credito che veda moltiplicare i propri emolumenti malgrado il risparmiatore si veda costretto a subire l’impennata delle rate del mutuo o ad assistere ad una progressiva erosione dei propri risparmi. Parimenti, si ponga mente alle stock options generosamente elargite da talune società ai propri manager come premio per la “ristrutturazione” aziendale, espressione melliflua con la quale si tende a edulcorare la natura bieca di questa tipologia di operazioni. Nello stesso tempo, si pensi agli utili conseguiti da talune società che, usando pretestuosamente il tema dell’aumento del costo delle materie prime, non hanno esitato ad aumentare in modo abnorme e sconsiderato i prezzi dei loro prodotti.

Si tratta della cosiddetta “greedflation” (inflazione da avidità), con cui molte imprese non hanno avuto scrupoli nel perseguire l’obiettivo di una “rendita da inflazione” sulla pelle del cittadino il quale, di contro, ha assistito impotente alla decurtazione del proprio reddito che l’inflazione ha falcidiato in modo talora drammatico.

In proposito, sarebbe utile rammentare che, tra il 2008 e il 2022, all’interno dei paesi del G20, l’Italia rappresenta l’economia in cui i salari sono calati maggiormente (-12%, rispetto al -4% degli inglesi e del -2% dei giapponesi, ultimi e penultimi in questa triste graduatoria).

La questione salariale, pertanto, resta la vera emergenza del paese che tutti i governi della Repubblica hanno colpevolmente sottovalutato concorrendo a determinare la disaffezione del cittadino e le astensioni degli ultimi anni. In verità, malgrado i tassi favorevoli e la bassa inflazione propiziati dal “quantitative easing”, in Italia non siamo riusciti a garantire ai salari e alle pensioni il recupero, neppure parziale, delle pesanti flessioni registrate negli anni precedenti.

In questo senso, occorre riconoscere al governo in carica l’attenuante di una congiuntura che ha imposto alla Bce l’adozione di una politica monetaria restrittiva di cui i governi nazionali si vedono costretti a gestire le conseguenze. La scommessa di Giorgia Meloni è quella di uscire dalle secche dell’attuale congiuntura non già attraverso una politica redistributiva ma mediante misure volte a liberare risorse per innescare la crescita (riduzione della pressione fiscale e una buona dose di “deregulation”). Si tratta di una scelta di chiara matrice liberista, alquanto gravida di incognite sul piano del consenso, che la Meloni cerca di addomesticare rilanciando il tema del presidenzialsimo.

Occorre ammettere che le sorti del paese sono legate più che mai alla nostra capacità di intercettare i denari del Recovery. In questo senso, la destra italiana è chiamata a fare definitivamente chiarezza sull’Europa fugando ogni ambiguità e, conseguentemente, tagliando i ponti con quell’allegra masnada di sovranisti che continuano ad osteggiare il percorso comunitario flirtando, neppure tanto segretamente, con il compagno Putin.

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