La rielezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica costituisce l’ennesima riprova che il nostro paese si trova nel pieno di una crisi di sistema di cui già l’avvento del governo Draghi costituiva un segnale inequivocabile. Invocare il soccorso di Mario Draghi prima, e di Mattarella dopo, dimostra, ancora una volta, la pochezza di una classe politica che impone la necessità indifferibile di porre sul tappeto la delicata questione della rappresentanza. Il Parlamento italiano, inutile nasconderlo, si compone in larga parte di mediocri yesmen cooptati dalle segreterie di partito. Le liste bloccate, che impediscono al cittadino di esprimere le proprie preferenze, costituiscono non solo un grave vulnus alla democrazia rappresentativa ma, altresì, una macroscopica distorsione del dettato costituzionale che non va più sottaciuta. Si ponga mente al c.d. “divieto di mandato imperativo”, sancito dall’art. 67 della Carta costituzionale, secondo il quale “ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. In forza di tale norma, i parlamentari non rispondono del proprio operato agli elettori del proprio collegio ma rispondono al paese per cui, una volta eletti, dovranno farsi interprete dell’interesse generale. Come tutti sappiamo, questa norma viene utilizzata, con una buona dose di improntitudine, per giustificare quei frequenti “cambi di casacca” che rappresentano un fenomeno aberrante della politica italiana. I Padri costituenti non immaginavano certamente che quella norma sarebbe diventata strumento di quel mercimonio parlamentare che siamo avvezzi a vedere in ogni legislatura (in quella in corso, in soli quattro anni, siamo già arrivati a 276 cambi di casacca). Non si dovrebbe mai dimenticare che l’accezione costituzionale dell’art. 67 si fonda sulla peculiarità del mandato politico che, a differenza del mandato giuridico, non è revocabile durante il suo svolgimento. Per gli elettori, pertanto, ci sarebbe solo una possibilità per “punire” un parlamentare che ha disatteso le promesse elettorali: non votarlo più. Bene, avere abolito le preferenze ha svilito, di fatto, la portata della norma perché al cittadino è stato sottratto non solo il diritto di scegliersi chi lo rappresenta, ma finanche il diritto di revocare la fiducia a quel deputato o senatore, ritenuto “fedifrago”, al quale non vorrebbe più tributare il proprio voto. Occorre riconoscere, pertanto, che la caratura politica del nostro Parlamento affonda le radici in questa sorta di brutale confisca che le segreterie di partito hanno esercitato silenziosamente nei confronti degli elettori. I segretari di partito si preoccupano di blindare la propria leadership circondandosi di mediocri cacicchi ai quali viene riservato lo scranno parlamentare come guiderdone e ricompensa per la loro devota obbedienza. In tutte le periferie, in tutti i collegi elettorali del paese, possiamo constatare la sconsolante mediocrità di un ceto politico che non si è mai misurato apertamente in una vera competizione con gli altri candidati della propria lista. Siamo davanti, pertanto, ad un punto di non ritorno. Prima la scelta di un tecnico alla guida del governo e ora la penosa, invereconda supplica a Mattarella di restare al Quirinale, rappresentano l’ennesima prova che esiste nel nostro paese una sorta di “nomenklatura” che, in modo autoreferenziale, non intende rispondere al cittadino, né della propria condotta politica, né degli innumerevoli privilegi di cui continua a godere. Occorre, pertanto, “restituire lo scettro al popolo” restituendo agli elettori il diritto di scegliersi chi lo rappresenta. In caso contrario, se nessun parlamentare risulta sanzionabile, la democrazia rappresentativa diventa solo un guscio vuoto o, diciamolo pure, un colossale bluff. La questione delle preferenze rappresenta, pertanto, una vera emergenza democratica che i partiti cercano di occultare parlando d’altro. Il tema del presidenzialismo, ad esempio, costituisce l’ennesimo pretesto “polverulento” per evitare di riconoscere che la crisi della democrazia nasce da questa crisi della rappresentanza che non può più essere sottovalutata. Diciamolo chiaramente: il ripristino delle preferenze costituisce il discrimine che consentirà di capire chi intende davvero rilanciare la democrazia parlamentare e chi, di contro, vuole coltivare la suggestione del presidenzialismo come astuto espediente per sferrargli il definitivo colpo di grazia.

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