Per garantire l’inizio del nuovo anno scolastico, il governo si accinge ad investire una cifra importante sulla scuola che, da lungo tempo, vive una precarietà che la pandemia ha drammaticamente aggravato facendo emergere tutti i limiti di un comparto che, per decenni, è stato abbandonato a se stesso.

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In realtà, il sistema scolastico costituisce l’esempio paradigmatico del modo di pensare e di agire delle nostre classi dirigenti che non si sono mai interrogate sulle cause di un declino che esse hanno concorso a determinare fingendo di ignorare i processi degenerativi presenti nella società e nelle istituzioni.

In poco meno di trent’anni, l’Italia sembra essere un paese diverso e gli italiani sembrano un altro popolo. La colpa o, se vogliamo, il merito più grande della pandemia è stato di aver fatto esplodere i limiti strutturali di una nazione che, per decenni, è andata avanti per inerzia beneficiando di risorse che il tempo avrebbe fatalmente usurato. La verità è che, per lungo tempo, abbiamo vissuto di rendita grazie alla presenza di alcuni fuoriclasse che ci hanno consentito di primeggiare in molti campi. Il mondo ci ha invidiato le nostre eccellenze le quali, ad un certo punto della nostra storia collettiva, hanno iniziato a capire che, in Italia, il loro talento era sprecato. Perché è accaduto questo?

E’ accaduto perché, come accade nello sport, la grandezza di un paese dipende dal livello qualitativo del suo corpo sociale. Per esprimersi al meglio e vincere, anche i grandi campioni hanno bisogno di una buona squadra attorno a sé, cioè, di un tessuto connettivo di talenti che “parlano” la stessa lingua e sono accomunati da una medesima grammatica che si fonda sull’ambizione, sulla voglia di vincere e di migliorarsi (Messi e Ronaldo, da soli, non potrebbero mai vincere il campionato con la Spal). Fuor di metafora, il declino del paese è iniziato con il declino del cittadino medio di cui rare volte si è discusso in questi anni. Abbiamo sempre posto l’attenzione sull’impoverimento della classe media commettendo un errore di prospettiva perché, in realtà, il vero pericolo che incombeva sul paese era rappresentato dalla perdita di identità del cittadino che ha iniziato a coltivare una visione apocalittica del futuro vivendolo come un orizzonte pieno di insidie e non già di opportunità. Il futuro, è questo che ha spaventato il cittadino italiano il quale, aduso a vivere nel porto sicuro di un mondo bloccato, all’improvviso si è visto costretto a navigare tra i fortunali del mare aperto. La pandemia ha fatto emergere nitidamente, con una chiarezza cristallina, la verità di un paese fermo, seduto, imbolsito, che non si era mai accostato al futuro con la curiosità e l’entusiasmo di chi vuole crescere ispirandosi ai paesi più virtuosi ai quali, di contro, spesso abbiamo goffamente riversato quel rancore che era il chiaro segno dei nostri inconfessabili complessi di inferiorità.

L’assenza di investimenti in comparti-chiave della nostra economia rappresenta il sintomo di questa inveterata incapacità di leggere il futuro e di saperlo interpretare, operazione che presuppone preliminarmente l’accettazione della sua esistenza e la sua piena legittimazione: per capire il futuro, infatti, bisogna prima accettarlo. L’immobilismo del nostro paese, la sua ritrosia davanti alla necessità di accettare il confronto per paura di soccombere, ci costringono a fare oggi quanto non è stato fatto ieri. La Storia, dunque, ci ha presentato il conto delle nostre innumerevoli inadempienze.

Ora la pandemia ci obbliga ad approntare una serie di interventi che, sotto la spinta dell’emergenza, rischiano di essere solo una toppa ad un vecchio abito sdrucito destinato, comunque, a restare vecchio. Oggi rischiamo di accollarci i costi, infinitamente più alti, di riforme emergenziali che, oltre a costare di più, appaiono prive di respiro strategico e avulse da una visione organica dei numerosi problemi da risolvere.

C’è il grave rischio, pertanto, di pagare a caro prezzo la colpa di una miopia collettiva che rappresenta il vero dramma di un paese che ha sempre vissuto alla giornata, che non ha mai saputo programmare nulla e che non ha mai avuto il coraggio di interrogarsi sulle ragioni del proprio declino. Come diceva Simone de Beauvoir, “ci sono risposte che non avrei la forza di ascoltare e perciò evito di farmi le domande”.

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