Secondo i dati della Regione Lombardia, lo scorso martedì sera il 50 per cento dei comaschi risultava in circolazione. A Milano il Sindaco Sala ha denunciato che, di sera, la sua città registra un singolare incremento della circolazione in barba alle stringenti ragioni previste dalla legge. Insomma, un po’ ovunque, negli ultimi giorni abbiamo assistito ad un aumento significativo delle auto in circolazione per cui si ha la sensazione di un pericoloso allentamento, da parte del cittadino, del rispetto delle restrizioni. In realtà, non è esattamente così anche se esiste una parte del paese (per fortuna minoritaria) che dimostra una pervicace riluttanza ad accettare le misure di contenimento che tutti sappiamo. Ma c’è altro. Si parla diffusamente di avvenuta “chiusura” della nostra economia ma sarebbe utile riflettere su un dato che gran parte dell’opinione pubblica tende ad ignorare. Non tutti sanno, ad esempio, che, in piena emergenza sanitaria esistono 71 mila aziende che continuano a svolgere regolarmente la propria attività. Si ponga mente a questo dato: il 67 per cento delle aziende che “lavorano in deroga” si trova nelle regioni falcidiate dal virus: Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria. Solo in Lombardia, le imprese oggi operanti sono 16.740. La procedura per ottenere la deroga si fonda su una semplice autocertificazione con cui l’impresa dichiara di svolgere un’attività che rientra nelle filiere che il decreto del governo del 22 marzo scorso ha identificato  come “essenziali”: sanità, trasporto, logistica, agroalimentare. Per non intasare le prefetture, il decreto prevede che il “silenzio” degli uffici valga come “assenso” alla riapertura. E qui cominciano i problemi. Le cronache raccontano che esisterebbero molteplici imprese che, non avendo i requisiti, si sarebbero affrettate a cambiare i codici per poter rientrare tra le aziende strategiche  (quelle con i cosidetti codici Ateco) o, fatto ancor più grave, aziende che preferirebbero rischiare le sanzioni pur di non sospendere l’attività. Queste ultime sono, naturalmente, imprese di modeste dimensioni nelle quali i dipendenti sono legati da un forte vincolo di appartenenza all’azienda o, più semplicemente, sono costretti dall’imprenditore a recarsi al lavoro per non essere licenziati. Ad esempio, a Milano, in base ad un controllo su tremila imprese, la Guardia di Finanza ha sanzionato 40 attività per svariate irregolarità nella riapertura. L’incremento delle auto in circolazione di questi ultimi giorni non può, pertanto, essere derubricato come semplice atto di disobbedienza del cittadino perché, per ragioni di obiettiva necessità, la nostra economia non ha mai cessato di funzionare. Ora il problema che si pone al governo e alle Regioni è legato alla opportunità di “tornare alla normalità” consentendo il pieno ripristino delle attività produttive. In questo senso, la pressione con cui la classe imprenditoriale chiede che venga fissato un termine certo per la riapertura, non può prescindere dalla necessità che, preliminarmente, sia fatta chiarezza su alcune incognite che la comunità scientifica non ha ancora fugato. In verità, non ha senso invocare la riapertura di tutti i comparti produttivi se, a tutt’oggi, non è dato comprendere le modalità di evoluzione del virus e, soprattutto, il numero e il grado di incidenza degli asintomatici. I nostri imprenditori hanno fretta ed è ben comprensibile la loro paura di trovarsi, un giorno, davanti al baratro della bancarotta ma è indubbio che non possiamo correre il rischio di vanificare gli sforzi finora compiuti dall’intera nazione. Sarebbe, pertanto, delittuoso anteporre, in questo frangente, le ragioni della produzione alle ragioni della salute del cittadino che devono restare prioritarie per tutti: per il governo, per le Regioni e, quindi, anche per le imprese. Naturalmente è compito del governo accollarsi l’onere di garantire al sistema produttivo una rete di protezione in grado di attutire l’impatto di un prolungamento del “lockdown” sburocratizzando procedure e modalità di accesso al credito. Nel contempo, ogni Regione dovrà capire che l’emergenza potrà essere superata solo rinunciando ai soliti particolarismi e, in quest’ottica, dovranno concordare con il governo centrale ogni intervento, previa consultazione della comunità scientifica a cui, piaccia o no, dovrà spettare l’ultima parola. Dopo gli errori del passato, è giunta l’ora di capire che con la salute degli italiani non si può scherzare. Una volta tanto smettiamola con i soliti teatrini della politica che, oltre ad essere stucchevoli, oggi risultano perfino miserabili.

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