Il calcio champagne del Milan di Sacchi
Coppa Italia 1986-87, primi di settembre. In panchina Niels Liedholm (cui a fine campionato subentrerà un giovane Fabio Capello che riporterà il Milan in Europa dopo lo spareggio con la Sampdoria). È l’anno uno dell’era Berlusconi: per il Milan inizia infatti la prima intera stagione calcistica con l’imprenditore milanese alla presidenza dopo aver rilevato la proprietà della squadra in primavera.
Secondo la formula dell’epoca il Milan, a punteggio pieno nel girone eliminatorio, affronta il Parma a San Siro e ne esce sconfitto per 1-0 con un gol di Fontolan. Una sconfitta rumorosa, ma indolore per la squadra rossonera, che si qualifica comunque per il turno successivo insieme ai Ducali. Il sorteggio è però beffardo e ripropone Milan-Parma di nuovo negli ottavi di finale. L’andata si gioca ancora a San Siro e ne esce un risultato fotocopia: 0-1 grazie alla marcatura negli ultimi minuti dell’ex (in prestito) Bortolazzi. Il ritorno a Parma finisce a reti bianche e la formazione emiliana passa ai quarti. Tre partite, zero gol segnati, due subiti è il bilancio visto dalla sponda lombarda del Po. Il segreto di una tranquilla città di provincia che si trasforma, improvvisamente, in una bestia nera per il diavolo sta seduto in panchina e porta il nome di Arrigo Sacchi. Ingaggiarlo per allenare il Milan è l’intuizione geniale di Berlusconi. Il resto è storia: ne nascera una delle squadre più spettacolari e vincenti di tutti i tempi. Nato il 1° aprile 1946 (compleanno in comune con altri due futuri allenatori rossoneri, Alberto Zaccheroni e Clarence Seedorf) a Fusignano, il profeta romagnolo si presenta in via Turati con una filosofia semplice e ambiziosa: vincere e divertire gli spettatori. Apriti cielo! In un calcio difensivista ai limiti del catenaccio da almeno un paio di decenni come quello italiano sembra una barzelletta oppure un’utopia, a seconda dei punti di vista. E invece è (e sarà) tutto vero!
Per costruire la squadra perfetta serve innanzitutto una campagna acquisti di primo livello. In un epoca in cui il numero di stranieri in rosa era ancora fermo ad un massimo di due giocatori, Sacchi chiede ed ottiene di pescare nel campionato olandese (una prima assoluta nella storia rossonera) per sostituire il duo inglese Wilkins-Hateley giunto a fine contratto. Dal PSV Eindhoven preleva Ruud Gullit, possente jolly con la passione della musica e il carisma innato del trascinatore. Per il ruolo di centravanti la scelta ricade su Marco Van Basten, stella dell’Ajax e fresco giustiziere della Dynamo Dresda in finale di Coppa delle Coppe. Il cigno di Utrecht ha mosso i primi passi accanto alla leggenda Johann Cruijff, ormai a fine carriera, e ne ha mutuato tutte le doti, compreso il raptus acrobatico per realizzare marcature strabilianti. Calmo, educato, potente, veloce e con il
senso del gol scritto a fuoco nel DNA, ma – ahimè – direttamente proporzionale alla fragilità delle caviglie. Completano la squadra titolare altri tre trasferimenti nella sessione estiva del calciomercato: dalla Roma arriva Carlo Ancelotti, centrocampista che si appresta a vivere da protagonista un finale di carriera sfolgorante, dall’Udinese viene acquistato Angelo Colombo, biondo (come Buriani) mediano tignoso che completa una difesa leggendaria e dal Monza un giovanissimo Alessandro Costacurta.
Vincere e convincere si diceva: beh, tra settembre e ottobre non è proprio così! Van Basten si fa subito male e finirà per saltare gran parte della stagione. Due sconfitte casalinghe per 0-2 contro la Fiorentina (trascinata da un giovane e talentuoso Roberto Baggio) in campionato e contro l’Espanyol Barcellona in Coppa UEFA costano al Milan una prematura uscita dalle coppe e un preoccupante scricchiolio sulla panchina di Sacchi. Che fare? Berlusconi conferma sorprendentemente la fiducia al tecnico e la squadra reagisce con un crescendo rossiniano pluriennale che manderà in visibilio i tifosi e l’Italia intera.
Da battere c’è il Napoli di Maradona, lanciatissimo verso la conferma dello storico scudetto conquistato la stagione precedente. Il Milan, come da copione, insegue. Il derby autunnale vinto per 1-0 con la rocambolesca autorete di Riccardo Ferri e, soprattutto, il perentorio 4-1 con cui il la
compagine rossonera annichilisce i partenopei dopo la sosta di Natale fanno capire a Diego e compagni che non sarà facile riconfermarsi. A dieci giornate dal termine il Napoli ha tuttavia cinque punti di vantaggio sul Milan: un margine importante nell’era dei due punti per vittoria. Ma
l’orchestra guidata dal mago Sacchi ormai non sbaglia più un colpo e conquista 8 punti in più (15 contro 7) nell’ultimo terzo di campionato, sopravanzando a fine anno di 3 lunghezze i diretti avversari. Pietre miliari della rimonta resteranno la stracittadina di ritorno con l’Inter (vinto ben
più nettamente del 2-0 finale grazie ad un Gullit semplicemente strabordante e inafferrabile) e il match del sorpasso del 1° maggio 1988 allo stadio San Paolo. A metà partita siamo ancora in parità, con una punizione del solito Maradona a pareggiare il vantaggio siglato da Virdis. La Rai si
collega, durante l’intervallo, con lo stadio. I tifosi azzurri esultano dietro la porta in cui ha segnato il “Pibe de Oro” indicando festanti il punto esatto in cui il pallone si è insaccato. Ma l’urlo dei sostenitori napoletani verrà ricacciato in gola da una prestazione perfetta dei rossoneri, che nella
ripresa daranno prova di una disarmante superiorità. Finisce 2-3, con il ritorno in campo e al gol di Van Basten, guarito giusto in tempo per godersi i giorni del trionfo. La conquista dell’Europa è più tormentata, ma altrettanto esaltante. Episodi fortunati e sfortunati si compensano, ma la visione d’insieme racconta di un Milan stellare insignito a posteriori della definizione di squadra più forte di tutti i tempi. In organico arriva Frank Rijkaard, centrocampista tuttofare che completa il meccanismo di un orologio di precisione capace di annientare gli avversari con la delicatezza di un fiume in piena.
La Coppa dei Campioni (per i più giovani, l’antenata della Champions) 1988-89 inizia dai sedicesimi di finale ed è ad eliminazione diretta. Il primo turno è una formalità: 2-0 e 5-2 ai quasi sconosciuti bulgari del Vitocha Sofia (ex Levski Sofia, sciolto dal Partito nel 1985 insieme al CSKA dopo i disordini della finale di coppa nazionale, che riprenderà la denominazione originale dopo la caduta del muro di Berlino) con un gol ingiustamente annullato che passa inosservato. Negli ottavi l’avversario è la Stella Rossa Belgrado, che impatta 1-1 a San Siro. La gara di ritorno è indirizzata verso gli slavi, meritatamente in vantaggio per 1-0 quando l’incontro viene sospeso per nebbia. Si rigioca daccapo il pomeriggio seguente, così recita il regolamento. Il Milan segna, ma l’arbitro non vede il gol (arbitri di porta, VAR, monitor review e ammennicoli vari sono ancora idee più che fantascientifiche). Segna di nuovo, ma gli avversari prontamente pareggiano per soccombere soltanto dopo i calci di rigore. Nei quarti il Werder Brema viene superato di misura: 0-0 in Germania (con il solito gol annullato) e 1-0 a San Siro. Semifinale di lusso contro il Real Madrid, che non sarà ancora quello del XXI secolo con i “Galacticos”, ma che schiera in avanti, da destra a sinistra, Butragueno, Sanchez e Valdano. Al Bernabeu finisce 1-1, con un inspiegabile fuorigioco ad annullare una splendida rete corale del Milan e costringe il cigno Van Basten ad avvitarsi in volo per mettere a segno un gol valido (anche se, a referto, verrà considerata autorete del portiere). Il ritorno allo stadio Meazza, gremito in ogni ordine e grado, è una delizia per gli appassionati di calcio di tutte le età. Cinque a zero! Una manita impensabile alla vigilia. Il gioco di Sacchi
ridicolizza i “blancos”, relegando i giocatori allo scomodo ruolo di birilli tra cui i diavoli ambrosiani slalomeggiano indisturbati. Segna tutta la prima linea: un gol a testa per Ancelotti, Gullit, Van Basten, Rijkaard e Donadoni. La furia realizzativa si arresta al 60°: surclassare l’avversario va bene, umiliarlo no. La finale contro lo Steaua Bucarest a Barcellona è tanto una formalità, come il primo turno, quanto un dominio, come la semifinale: rotondo quattro a zero con doppiette dei due tulipani. Avversario in bambola dal primo minuto, sopraffatto, ma non umiliato. Uno stadio
praticamente riempito con i tifosi milanisti venuti da tutta Italia che ritornano in cima all’Europa dopo due decenni.
Nel frattempo, in Italia, nasce una nuova competizione: la Supercoppa, che oppone la vincitrice del campionato e quella della Coppa Italia. Un’occasione in più per rimpinguare la bacheca societaria (un po’ come avvenne in Europa negli anni Settanta, quando nacque la Supercoppa per far gareggiare l’Ajax di Cruijff in un’ulteriore manifestazione) che il Milan non si lascia scappare: la gara, giocata nel giugno 1989, ma relativa alla stagione precedente, vede il Milan battere 3-1 in rimonta la Sampdoria con gol decisivo di Graziano “Lupetto” Mannari.
Il ciclo è iniziato e il Milan seguiterà a vincere per un paio di anni buoni. In quello stesso 1989 la squadra di Berlusconi completerà il “triplete” internazionale conquistando anche la Supercoppa Europea (sul Barcellona) e la Coppa Intercontinentale (sui colombiani del Nacional Medellin con
una rete su punizione di Chicco Evani al crepuscolo dei tempi supplementari). Filotto a livello europeo e mondiale anche nella stagione 1989-90: seconda Coppa dei Campioni di seguito vinta 1-0 a Vienna ai danni del Benfica (sempre alle prese con la cosiddetta “maledizione” di Bela Guttman) dopo aver superato nuovamente il Real Madrid negli ottavi. Supercoppa Europea vinta nella doppia finale tutta italiana contro la Sampdoria di Vialli e Mancini e Coppa Intercontinentale ottenuta a mani basse tritando 3-0 i paraguaiani dell’Olimpia Asuncion a Tokyo.
Ai successi copiosi in campo internazionale fa da contraltare un’inaspettata sterilità entro i confini nazionali. Se lo scudetto 1988-89 è sempre stato fuori portata e appannaggio dell’Inter dei record, nel 1989-90 niente sembra essere in grado di fermare l’armata di Sacchi. Qualcosa però si inceppa a primavera e lo scudetto finisce nuovamente sulle sponde del Vesuvio complici una monetina (che colpisce il brasiliano Alemao a Bergamo e porta una vittoria a tavolino dopo una convincente sceneggiata napoletana) e una seconda imprevista “Fatal Verona”, dove il Milan perde partita, testa e soldati (espulsi Sacchi, Costacurta, Rijkaard e perfino Van Basten) al penultimo turno. Titolo perso come la finale di Coppa Italia contro la Juventus: 0-0 a Torino il 28 febbraio, 0-1 a San Siro il 25 aprile, giorno dell’inaugurazione del terzo anello costruito appositamente per i mondiali.
Le luci del Milan di Sacchi si spegneranno (in tutti i sensi) a Marsiglia, nei quarti di Coppa dei Campioni 1990-91. La fuga precipitosa della squadra negli spogliatoi su ordine avventato di Galliani – cui farà seguito un anno di squalifica da tutte le competizioni europee – e l’ennesimo scudetto sfumato (dopo essere stati più volte in testa al campionato) segnano la fine del quadriennio sacchiano. L’ex allenatore carneade è ora maturo per guidare la nazionale azzurra.
Ma questa è tutta un’altra storia.