Chiunque ami il calcio considera i Mondiali il momento piú alto di un rito collettivo destinato, fin dall’infanzia, a solcare la memoria di ognuno e a scandire le tappe più significative della giovinezza.

Annunci

Negli anni dell’adolescenza, l’inizio dei Mondiali era preceduto da una attenta liturgia che verteva su uno studio scrupoloso di squadre, calendario e gironi. A quell’età il calcio è una cosa seria, molto più seria delle abituali litanìe di un vecchio professore che, con aria grave e schifiltosa, sentenziava che il calcio è una sorta di bromuro sociale usata dal Potere per addormentare le menti.

Non aveva poi tutti i torti visto che, qualche anno dopo, ci sarebbe stata la triste scoperta che, dietro la bellezza delle mirabolanti giocate di Maradona, Rossi o Platini, si nascondevano nefandezze inenarrabili.

Fino a quel momento, ad esempio, non avevamo capito le ragioni che inducevano Gianni Brera, durante i Mondiali in Argentina, ad esortare la stampa italiana a parlare solo di calcio per evitare le sconcezze subite nel mondiale cileno del 1962.

Brera, infatti, raccontava che in quel mondiale gli arbitri avevano punito la nostra nazionale per i giudizi sprezzanti dei giornalisti italiani sul regime e sulle condizioni del popolo cileno.

Quella comparazione risultava incomprensibile. Solo anni dopo divenne chiaro perchè il capitano della nazionale argentina, Mario Kempes (“El matador”), si rifiutò di stringere la mano al generale Videla: fu drammatico scoprire gli orrori perpetrati dal regime militare che usò i mondiali per ripulire la propria immagine sporcata di sangue.

L’età adulta è triste anche per questo: si infrangono i miti, si disvelano le menzogne, si scopre che, in quelle che apparivano stucchevoli geremiadi del vecchio professore, c’era un fondo di verità.

Col passare degli anni, pertanto, l’entusiasmo giovanile per i Mondiali tende fatalmente a stemperarsi: si scoprono tutte quelle turpitudini che il candore adolescenziale non riusciva neppure ad immaginare.

Si scopre, ad esempio, che Italia ’90 non fu solo il Mondiale delle notti magiche di Totò Schillaci ma anche quello delle immonde ruberìe da cui nacque Tangentopoli. Si scopre che non solo le dittature, ma anche le democrazie, usano il calcio per muovere denaro, per costruire consenso, per irrorare un sistema dai rivoli infiniti, non sempre nobili. Per questo motivo, esistono due modi di raccontare il calcio e, quindi, anche il Mondiale del Quatar.

Possiamo goderci le partite con spirito spensierato e adolescenziale: quindi, conoscere tutte le squadre, imparare a memoria calendario e gironi, esaltarci per le prodezze di Messi e di Mbappè.

Ma, poi, c’è un altro modo che, probabilmente, non sarebbe piaciuto a Gianni Brera: raccontare un mondiale sporcato da tutte quelle verità inconfessabili che tendiamo ad occultare per una serie infinita di ragioni che tutti conosciamo.

Accostarsi al calcio in questo modo, significa dare prova della decadenza della cultura occidentale, della sparizione di quei valori che pretendiamo di trasmetterere agli altri popoli fingendo di dimenticare che siamo noi, per primi, a calpestarli.

La democrazia è una cosa seria ma, ormai, ci limitiamo a declinarla solo in senso mercantile: i diritti civili sono solo belluria, un inutile orpello che ci limitiamo ad esibire senza crederci davvero.

Ammettiamolo senza tanti infingimenti: il Mondiale in Qatar è il mondiale delle contraddizioni e dell’ipocrisia. Un fiume di denaro a cui l’Occidente attinge a piene mani fingendo di ignorare che, con quello stesso denaro, il Qatar finanzia l’Isis, che con quello stesso denaro è stata tolta la vita a tanti innocenti, proprio come quei seimila operai che si sono immolati per allestire uno spettacolo inzaccherato dal fango del malaffare e del profitto.

Quando si sente parlare di “identità nazionale”, verrebbe da chiedersi quali sarebbero i valori di cui si comporrebbe la nostra identità. Ci sono tante domande che dovremmo porci su ciò che siamo o, ancor meglio, su ciò che siamo diventati. Ma è molto meglio volgere lo sguardo altrove. Come diceva Simone de Beauvoir, “ci sono risposte che non avrei la forza di ascoltare e, per questo, evito di porre le domande”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *