Le recenti inchieste giudiziarie dimostrano che Tangentopoli non è stata una parentesi sciagurata della storia patria ma è stato il ritratto collettivo di un popolo e di una nazione. La sensazione è che la classe dirigente del paese sia talmente consapevole della propria forza da impiparsene bellamente del cittadino il quale assiste rassegnato e impotente a questa continua, proterva esibizione di invulnerabilità.

I continui attacchi alla magistratura e allo strumento delle intercettazioni costituiscono la riprova del tentativo di portare a termine una sorta di “soluzione finale” con la quale la nomenclatura intende sottrarsi definitivamente al giudizio di chicchessia. Si tratta di un percorso iniziato con l’abolizione delle preferenze, proseguito con il controllo dell’informazione e ultimato con il regolamento dei conti con la magistratura condotto senza requie da un ex magistrato rancoroso con l’appoggio silente di una parte dell’opposizione.

Le inchieste di Bari e di Genova dimostrano che la mappa corruttiva del paese risulta ampia, diffusa e articolata. I denari del Superbonus e del Pnrr hanno solleticato appetiti convergenti e trasversali che vedono all’opera falangi di lestofanti di ogni colore con la complicità di una classe politica di cui colpisce non solo la modesta caratura ma, soprattutto, la grande permeabilità morale.

Occorre prendere atto, purtroppo, che Tangentopoli non ha insegnato nulla, come dimostra il fatto che, passata la stagione delle inchieste, si era diffusa l’ingenua convinzione che il paese sarebbe miracolosamente rinato. Considerare, tuttavia, Mani Pulite come una sorta di provvidenziale lavacro, è servito solo per creare un comodo alibi collettivo per una società che finge tuttora di non vedere quel fenomeno degenerativo che, nel suo recente saggio, Fabio Armao ha definito “oikocrazia”, cioè, il controllo della politica e dell’economia concentrato nelle mani di ristrette consorterie e di famelici clan che non disdegnano, talora, di flirtare con le mafie.

In verità, Tangentopoli non è stata la catarsi di cui ha favoleggiato la vulgata populista dell’epoca, ma ha rappresentato il triste compendio della psicologia di un popolo e delle sue classi dirigenti. Tutti sapevamo, infatti, che in futuro non sarebbe cambiato nulla perché il malaffare rappresentava un fenomeno radicato e strutturale, costitutivo non solo del sistema politico ma di una intera società rimasta sostanzialmente individualista e refrattaria alle regole.

Occorre ammettere, pertanto, che la nostra democrazia è profondamente malata perché sono profondamente malate le sue élite politiche ed economiche le quali, attraverso il proprio esempio aberrante, hanno finito per legittimare le magagne, piccole e grandi, che costellano la quotidianità di molti cittadini.

Se fossimo un paese normale, davanti alla corruttela dilagante, ogni bravo cittadino dovrebbe indignarsi furiosamente. Di contro, il paese assiste con indifferenza a quel “mostruoso connubio” tra politica e imprenditoria che continua a vedere nello spazio pubblico l’occasione per fare denari con un cinismo scellerato e, talora, perfino disumano: “topi sul formaggio”, come scrisse Paolo Sylos Labini più di quarant’anni fa.

Leggere le cronache di queste settimane consente di capire tante cose, compresa la disinvoltura con cui stampa e classe politica siano avvezzi a oscillare, alla bisogna, tra garantismo e giustizialismo. In realtà, andrebbe ricordato che le guarentigie costituzionali sortiscono dalla necessità di ritenere i politici non semplici cittadini ma “servitori dello Stato”. Ciò vale sia in positivo che in negativo. A questo proposito, resta celebre una battuta di Montanelli il quale, riferendosi ad Andreotti, disse: “Un politico non ha solo l’obbligo di essere onesto ma anche di sembrarlo: quindi, non servono sentenze, basta l’odore di bucato”.

Lasciateci dire che una buona parte del ceto politico non profuma di Vernel!

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