Non è semplice definire il quadro e, tirandone le fila, individuare lo stato dell’arte raggiunto dalle contaminazioni, ibridazioni e rimediazioni tra cinema e videogioco. Le difficoltà derivano da molteplici fattori, alcuni tecnologici, altri filologici e semantici e altri ancora (non neutri) essenzialmente commerciali.
Su questo sostrato piuttosto fluido, a complicare le cose, si aggiunge il fatto che nel settore videoludico non si è ancora maturata quella necessaria consapevolezza critica e speculativa che ha concesso invece al cinema di trovare un’identità mediatica sempre più profonda e ampia, acquisendo progressivamente modelli-categorie-funzioni nuovi rispetto a quelli imposti in epoca classica e rimettendo così in discussione l’essenza stessa della finzione filmica.
Questa forma di affrancamento nei games è evidentemente ancora di là da venire e le contaminazioni (anche se siamo probabilmente in una fase di passaggio, all’inizio di una nuova glaciazione), più che altro ricalcano e riciclano il linguaggio cinematografico identificandolo come lo strumento più efficace per esaltare l’eleganza formale del prodotto videoludico (autolegittimandolo).
Di contro, nel cinema si cerca di rincorrere quella dimensione immersiva che ai giochi riesce a garantire enormi ritorni economici, di fidelizzazione e diffusione. Una chimera che fino ad oggi si è dimostrata irraggiungibile o comunque deludente nei risultati. In realtà, almeno secondo il mio punto di vista, questo è accaduto soprattutto a causa di un approccio troppo didascalico nella sperimentazione e senza il rinforzo di una riflessione ponderata su essenze e differenze tra i due media, che andrebbero piuttosto preservate e non forzate.
La narrazione è evidentemente il terreno comune a entrambi i media (e questo a prescindere dall’esistenza di una trama, dal genere dei giochi, dalla loro fruizione offline o online, single player o multiplayer, etc.).
Cosa essa rappresenti e come, nel cinema è ormai piuttosto definito.
Cercando di individuare cosa la connoti maggiormente nei giochi partendo dallo schema interpretativo di M.R. Ryan, potremmo dire che la narrazione:
- si snoda attraverso la mediazione intellettuale-cognitiva (e fisica) del giocatore
- è prevalentemente mimetica, prendendo corpo attraverso gli eventi mostrati
- torna più volte su se stessa, incentivando la scoperta e consentendo l’apprendimento e la crescita attraverso l’esplorazione e la prassi reiterata
- si declina attraverso il ruolo attivo del giocatore che contribuisce fattivamente allo sviluppo dell’intreccio
- è caratterizzata da un numero volutamente ridotto di punti di riferimento per il fruitore, richiedendo al giocatore di colmare i vuoti attraverso una scoperta progressiva e partecipativa (il giocatore catapultato nell’universo di gioco in media res, deve unire i puntini per comprenderne la struttura, la logica, la fisica e in definitiva lo scopo)
- è eminentemente metaforica. I simboli sono indizi che il giocatore deve individuare, raccogliere e decodificare per comprendere il mondo e risolvere le sfide
Esplorazione, apprendimento e crescita sono, pertanto, le coordinate chiave che guidano l’esperienza ludica. Il ruolo attivo del giocatore è chiaramente un elemento dirimente.
Tuttavia sono evidenti anche elementi ampiamente condivisi con il cinema e d’altra parte esplorazione, apprendimento e crescita sono anche i cardini del viaggio dell’eroe.
Sforzandomi di trovare casi di contaminazione più funzionali a esplicitare i termini della mia tesi, ci sono tre film che mi paiono paradigmatici di una lettura, al tempo stesso, più ampia del concetto di ibridazione, ma anche in grado di preservare le unicità di entrambi i media. Dal più immediato al meno evidente: Lola corre, Memento e Enter the void. Non si tratta chiaramente di esempi esclusivi, né inoppugnabili, ma mi pare offrano una dose sufficiente di stimoli per una riflessione organica sul tema.
‘Lola corre’ mutua la struttura scheletrico-concettuale del gameplay: la trama si sovrappone con la “missione” della protagonista, chiaramente definita attraverso il limite temporale che le è imposto (challenge), che è poi anche il pretesto narrativo del film.
La messa in scena di questa missione è evidentemente definita secondo lo schema tipico dei game indicato in precedenza: esplorazione, apprendimento, crescita. La ripetizione della storia, l’alterazione per snodi dell’intreccio e il suo stesso progredire fino al felice esito finale, si basano su meccanismi di trial & error, come se questi fossero la materia organica del “gameplay” del film.
La narrazione torna, dunque, più volte su se stessa, ripetendosi per l’intero svolgimento del film, presentando piccole ma significative variazioni che ne consentono lo sviluppo ulteriore. Il racconto descrittivo sembra muoversi sulle rotaie ideali dei cicli di morte – rinascita – nuova scelta – impatto degli effetti – crescita della efficacia dell’azione e della consapevolezza del personaggio – accomplishment finale (ma graduale) della missione di gioco.
‘Memento’ non mutua, ma condivide dei tratti distintivi propri del coinvolgimento cognitivo del giocatore. Lo spettatore è infatti costretto a un processo sfidante di ricostruzione del senso attraverso la ripetizione. Elemento, come abbiamo visto, ontologicamente essenziale nell’esperienza videoludica.
La sintassi dei games è infatti, per sua natura, frammentata e il processo di ricostruzione semantica avviene in modo simile a quello che Nolan suggerisce o a cui costringe lo spettatore. Come in un videogame, gli elementi che danno corpo al significato della narrazione sono “sparsi” nel testo filmico e vengono resi accessibili secondo direttrici temporali discontinue e capovolte. Allo stesso modo di quanto avviene in un gioco, allo spettatore/giocatore viene richiesto di “esplorare” il testo filmico (magari in più di una visione), e di reperire le giunture e gli snodi dei nessi logici interni (individuabili grazie ai loop alternati del montaggio), riorganizzandoli in modo tale da consentire la decodifica dell’universo e quindi la soluzione della storia.
La missione è nascosta, ma l’esplorazione e l’apprendimento, insieme ai loop che lo guidano, sono elementi tipici e tipizzati della dinamica ergodico-narrativa dei giochi (non solo di avventura).
Nel tentativo di individuare i fenomeni di ibridazione e rimediazione più interessanti, la scelta di ‘Enter the void’ è sicuramente la più arbitraria, dal momento che non è dato rilevare nel film alcun riferimento immediatamente esplicito ai videogame, né un dichiarato o emergente intento da parte del regista viene in aiuto per giustificarla.
Tuttavia, la natura puramente “osmotica” di questa ibridazione, rende l’indagine sulla stessa estremamente più stimolante.
Infatti, in questo caso, la suggestione nasce dalle spavalde scelte formali operate dal regista, che ipotizzo, altrettanto arditamente, possano essere state sussunte nella finzione filmica in quanto pervasivamente indotte da un certo “immaginario”.
Che sia intenzionale o meno, l’uso della macchina da presa, in tutte le declinazioni presenti nel film, sembra riprodurre gli effetti dei vantage point tipici delle “telecamere” di gioco.
Il film si apre in soggettiva e questo tipo di punto di vista è predominante, seppur non esclusivo, nel corso del film. Gli inserti delle immagini di pedinamento, d’altra parte, non sono mai interrotti da controcampi. In definitiva, salvo un paio di sporadiche riprese allo specchio, il volto del protagonista è costantemente eliminato dal frame. Questo rigore esclusivo è un tratto distintivo sia dei giochi FPS (soggettiva pura), sia delle avventure in terza persona (in cui il protagonista è ripreso solo di spalle).
Nel primo caso la soggettiva è utilizzata per massimizzare l’effetto adrenalinico dell’azione; nel secondo per favorire, funzionalmente, la relazione del giocatore con l’ambiente circostante, all’interno del quale egli deve individuare i segni per trasformarli in strutture di significato.
Nel film, la radicalità di questa scelta formale, ulteriormente potenziata dall’impatto visivo delle immagini notturne di una Tokyo mai così lisergica, concede grande vividezza all’esperienza dello spettatore, ma impedisce – o almeno rende più difficoltoso – qualunque tentativo di immedesimazione empatica con il protagonista.
A me sembra che proprio questo sia un elemento peculiare dell’esperienza videoludica.
Nonostante gli sforzi e la qualità raggiunta nelle sceneggiature di molti videogiochi, il massimo coinvolgimento che questi offrono ai giocatori resta sbilanciato a favore della relazione instaurata con l’universo di gioco più che verso quella sviluppata con il proprio avatar.
Il personaggio interpretato dal giocatore resta un contenitore neutro per la più gran parte del tempo di gioco, essendo concepito per ospitare, veicolare e tradurre lo sforzo intellettuale, fisico ed emotivo di chi lo guida.
Di contro, è attraverso l’interazione con l’ambiente che la storia si fa, che la consapevolezza del giocatore cresce e che il suo coinvolgimento emotivo e sensoriale si fanno spazio. Per questo motivo, quando si parla di videogiochi si parla di esperienze immersive: il giocatore in realtà non risuona con la vicenda del protagonista, ma viene letteralmente calato all’interno del suo mondo (di cui accetta incondizionatamente le regole), con il proprio bagaglio personale di capacità e inclinazioni. All’interno di questo perimetro si definisce l’esperienza, in quanto è dentro a questo universo che il giocatore troverà tanto gli stimoli ad agire che i feedback alle proprie azioni. Anche la storia passa attraverso questo cordone ombelicale che lega il mondo all’attore. In questa metafora l’avatar non è che la placenta.
Allora in un videogame come in ‘Enter the void’ (il cui titolo ora sembra assumere tutt’altro significato), più che riflettersi nelle emozioni del protagonista, il giocatore e lo spettatore ne scoprono di proprie, grazie al rapporto generato con l’ambiente in cui vengono visivamente calati e da cui sono sinesteticamente sollecitati. In questo caso, una specifica rappresentazione formale crea la possibilità di invertire il flusso, concedendo al fruitore di proiettare o riversare l’elaborato degli stimoli ambientali ricevuti, all’interno di un personaggio-contenitore con il quale non è possibile empatizzare, non sussistendo la necessaria distanza per definire alcun dualismo, sia pure risonante.
Anche altri elementi del film sembrano far riecheggiare un contesto videoludico: gli ambienti notturni, esasperati dai colori dei neon, sembrano più fotorealistici che reali, il trattamento delle luci e delle ombre rende faticoso stabilire con certezza se quanto si sta vedendo sia un film o piuttosto una cut-scene di una simulazione e persino l’insegna ENTER, che apre la visione del film, sembra ammiccare a un vecchio coin-op in cui inserire il gettone…
Al di là di quanto tutto quel che ho scritto possa essere influenzato dalla mia esperienza personale, trovo seducenti le possibilità offerte a entrambi i media dalle nuove tecnologie (e conseguenti sperimentazioni). Mi auguro che con maggiore coraggio e minore cinismo di quelli mostrati finora, si riesca a trovare e percorrere nuove strade di reciproca contaminazione, che siano in grado di amplificare le potenzialità del racconto e soprattutto dell’espressione. Perché questo accada, tuttavia, occorrerà che l’industria dei giochi sviluppi una maggiore coscienza critica, che possibilmente induca un atteggiamento meno derivativo rispetto alla sperimentazione visuale e che il cinema si impegni in analisi meno approssimative delle dinamiche di coinvolgimento indotte dall’esperienza ludica, riconoscendo anche la potenza deflagrante dell’utilizzo dei codici linguistici dei videogame quando sfruttati all’interno del tessuto narrativo originale (si vedano i casi di ‘Elephant’ e ‘Old boy’).
(Simona Bassano)