La campagna vaccinale continua a vedere l’Europa in grave ritardo rispetto a Gran Bretagna e Usa per una serie di ragioni che hanno come denominatore comune l’esistenza di procedure che hanno finito per determinare un divario che risulta, ormai, inaccettabile: infatti, mentre in Europa risulta vaccinato il 9% della popolazione, la Gran Bretagna registra il 27% e gli Usa il 35%. Siamo, pertanto, davanti ad un ritardo la cui gravità si traduce fatalmente in una pressione sempre più insostenibile sulle strutture ospedaliere e in un tasso di mortalità da ritenersi tuttora anomalo. Occorre riconoscere che l’Europa esce malconcia dal confronto con quei paesi che hanno saputo dotarsi di mezzi e di norme in grado di supplire all’emergenza pandemica senza cadere nelle pastoie di quell’ottuso burocratismo che ha impedito, ad esempio, all’agenzia europea del farmaco (Ema) di derogare alle abituali procedure ricorrendo alla cosiddetta “emergency use authorisation” di cui, di contro, hanno beneficiato le agenzie del farmaco britannica e statunitense. Pertanto, poiché le norme comunitarie non prevedono a favore di Ema questa peculiare procedura d’urgenza, la campagna vaccinale in Europa è iniziata con un ritardo di venti giorni che stiamo tuttora pagando a caro prezzo. Questa è solo una delle ragioni da cui possiamo ragionevolmente arguire che l’Unione europea non è stata in grado di fronteggiare la pandemia come sarebbe stato lecito attendersi. Partendo da questa amara constatazione, in questo momento risulta urgente e indifferibile capire chi, nel marasma di questa emergenza sanitaria, vorrebbe strumentalizzare le citate défaillances per alimentare un clima anti-europeo che, a poche settimane dal varo del Recovery plan, è da ritenersi quanto meno peregrino. C’è una domanda che andrebbe posta, in modo perentorio, alle nostre forze politiche: davanti ai limiti strutturali dell’architettura europea che la pandemia ha disvelato con evidenza dirompente, sarebbe utile potenziare le istituzioni europee o rilanciare la sovranità degli Stati? Il dibattito pubblico avrebbe bisogno di fare chiarezza in modo definitivo sulla nostra collocazione in Europa che è costellata di tante, troppe ambiguità. Non è un mistero, infatti, che in Italia e in Europa esistano forze politiche che non perdono occasione per screditare l’operato dell’Unione per cui risulta difficile escludere l’esistenza di una precisa strategia di destabilizzazione in cui convergono motivi ideologici, ragioni geopolitiche e interessi finanziari di proporzioni abnormi e di inquietante opacità. Contro l’Unione europea opera da tempo immemorabile, in modo più o meno sotterraneo, una pluralità di soggetti di cui l’opinione pubblica ignora perfino l’esistenza. L’aiuto che i nostri partners europei si accingono ad elargire al nostro paese dovrebbe essere, pertanto, l’occasione per fare definitivamente chiarezza su chi crede realmente nell’Europa e chi, al contrario, intende solo carpirne i denari (prendi i soldi e scappa) a danno dell’immagine internazionale del nostro paese di cui, per tale ragione, alcune nazioni deplorano l’assoluta inaffidabilità. Sarebbe utile ricordare, in proposito, che il prossimo 18 aprile sarà il 70° anniversario del primo grande accordo comunitario che pose fine alle ostilità da cui ebbero origine le due guerre mondiali: nel 1951, infatti, nacque la Ceca, cioè, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Sei anni dopo (1957), le stesse nazioni diedero i natali alla Cee che sancì, per la prima volta nella storia del Vecchio Continente, “la libertà di circolazione di beni, servizi, persone e capitali”. Quelle nazioni, va ricordato, erano Italia, Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Pertanto, non bisognerebbe mai dimenticare che storicamente il nostro paese vanta una solida tradizione atlantica ed europeista di cui “ogni italiano dovrebbero esserne fiero”, come amava ripetere uno dei padri fondatori del progetto europeo, Jean Monnet. Di contro, un giorno sì e un giorno no, nei confronti dell’Europa si levano nei nostri cieli alcuni refoli di vento gelido che recano il sapore bieco e sinistro del vento siberiano. Diciamola tutta, il vero nemico della costruzione europea resta il nazionalismo che, per prosperare, ha vitale bisogno della rabbia sociale che la povertà può rendere incontrollabile. Spetta all’Europa il compito di disinnescare quella rabbia di cui si nutrono i suoi nemici. Per usare una frase cara a Mario Draghi, “wathever it takes”: costi quel costi.

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